Commento critico Simona Bartolena 2010

Un pregiudizio purtroppo molto diffuso, soprattutto in Italia, considera la ceramica un materiale destinato alla produzione di suppellettili e oggetti d’uso, relegandone l’impiego alle cosiddette arti decorative (spesso, tra l’altro, a loro volta tristemente considerate arti “minori”). Neppure l’esempio, straordinario, dell’opera di alcuni grandi artisti del Novecento – si pensi anche soltanto a Lucio Fontana – è stato sufficiente a fare piazza pulita di questo luogo comune. La ceramica raku, poi, in virtù delle sue indiscutibili qualità estetiche, che trovano terreno ideale nella produzione di piccoli oggetti o monili, fatica ancor di più a entrare nel novero dei materiali della plastica d’arte. Franco Boaretto non ha scelto, dunque, una strada semplice; lo ha fatto seguendo la naturale evoluzione delle cose, sperimentando in libertà con il colore e la materia prima di approdare al raku e scoprire la propria irrinunciabile affinità elettiva con questa tecnica dalle antiche origini, nella quale, come amava spiegare il compianto Enzo Sacheli, straordinario interprete del raku, “la Terra il Fuoco, l’Acqua e l’Aria giocano tra loro facendo gioire il giorno”. Sono stati proprio l’esempio e la lezione di Sacheli, del resto, ad introdurre Boaretto al raku, suggerendogli una direzione che si rivelerà poi quella giusta. Franco Boaretto si è avvicinato all’arte da giovanissimo, da autodidatta, dapprima realizzando opere a matita, carboncino e sanguigna, poi, intorno ai venticinque anni, cimentandosi nella pittura ad olio, con una tavolozza vibrante e piena di carattere e una pennellata che si fa sempre più materica e grintosa, man mano che passano gli anni e l’artista acquisisce sicurezza tecnica. Da un linguaggio naturalista piuttosto classico, quasi tardo impressionista, Boaretto si avvicina all’Informale, in cerca di una propria identità. Ma l’astratto non gli si addice: fin dalle prime opere emerge, infatti, prepotentemente la figura, soprattutto quella umana, che tutt’oggi occupa un ruolo fondamentale nella poetica dell’artista. Alla fine degli anni Ottanta egli ha già ampiamente trovato il bandolo della matassa, lavorando su figure stilizzate, dal sentore metafisico, sospese e a tratti inquietanti, scolpite nel colore come, di lì a breve, lo saranno nella materia. Dalla tavolozza alla terra, infatti, il passo è rapido. Già nei primi anni Novanta Boaretto scopre la terracotta e subito vi si dedica con passione e determinazione. Ma il passaggio decisivo avviene nel 1995, quando, come si diceva, scopre da Enzo Sacheli (ma poi sperimenta in piena autonomia e libertà) la tecnica raku. Alla policromia delle precedenti sculture in terracotta si sostituiscono i suggestivi effetti cromatici del raku, perfetti per il linguaggio figurativo dell’artista, tra simbolismo, sperimentazione e classicità. Ed ecco nascere un affascinante galleria di figure che sembrano non appartenere ad alcun tempo, presenze in bilico tra visione e realtà, che citano liberamente i maestri (Picasso, i metafisici, l’arte africana e la statuaria antica) senza mai restarne schiave. Sono maschere dai lineamenti stravolti, guerrieri di antichi popoli,cavalli surreali e figure femminili avvolte in abiti eleganti dall’incedere regale. Sono figure che sembrano appartenere a un universo parallelo, diviso tra antichità e futuro, realtà e sogno. Sono in questo mondo ma forse non gli appartengono, figlie di un’onirica età dell’oro, creature dell’immaginazione. Una metafisica alla Savinio, ancor più che alla De Chirico, vicinissima al Surrealismo (si pensi, in questo senso, alle figure con la testa a ricciolo, uno dei leitmotiv della poetica di Boaretto). Molte di queste creature non hanno faccia, non hanno occhi, non hanno bocca. Eppure parlano. Parlano con i loro corpi dalle linee sinuose e dalle superfici metalliche e raffinate, corpi nei quali si insinua la luce, attraversandoli, lambendone i contorni, giocando con la materia iridescente nella quale sono stati plasmati. Ed è proprio l’eleganza della materia, a mio avviso, uno degli aspetti più considerevoli dell’opera di Boaretto: le texture, attraenti e appaganti per l’occhio ma mai scontate, e la lavorazione ricercata, studiata nel dettaglio, che sa governare la tecnica raku senza imbrigliare l’irrinunciabile casualità che gli è propria. Spesso si tratta di piccoli dettagli, da cogliere in un’osservazione attenta, che superi il primo livello di lettura dell’oggetto, come la qualità tattile delle stoffe che avvolgono i corpi delle figure, nelle quali a una superficie liscia e levigata se ne contrappone sempre una ruvidae mossa. Una dote, questa, che emerge con maggior evidenza nelle sculture più essenziali e semplificate, come nelle forme sinuose di alcune figure femminili, con quel gioco di pieni e di vuoti che lascia filtrare la luce e l’aria nella materia, in suggestivi rimandi visivi. Coerente e personale tanto nella cifra espressiva quanto nella scelta dei soggetti, Boaretto non smette comunque di sperimentare, alternando la sua tecnica d’elezione, il raku, all’impiego di altre materie e alla ricerca pittorica. La sua formazione da autodidatta e la sua scelta di non fare dell’arte un mestiere gli hanno permesso di scegliere in libertà: la passione per l’arte, il divertimento nella creazione, la capacità di mettersi in gioco senza timori fanno tutt’oggi del suo essere artista un momento di ineguagliabile gioia e di sincera espressione di se stesso. Un momento che ha saputo dare, e saprà certamente farlo anche in futuro, ottimi frutti.
Simona Bartolena, 2010 da "il Volto del Corpo"

Nessun commento: